Firenze, 28 giugno 2024
IL PEPOSO
Nel Medioevo, le diverse classi sociali si distinguevano anche per la differente accessibilità al sostentamento: cibi ricercati e costosi come la carne o il pesce erano riservati alla nobiltà che interpretava il cibo non solo come nutrimento fine a se stesso, ma come vero piacere dei sensi, mentre al popolo non era permesso il lusso né di accedervi, né tanto meno di goderne.
Per questo le tavole medievali erano ornate da piatti poveri della tradizione contadina che non richiedevano ingredienti costosi e risolvevano il problema della conservazione. Dante Alighieri dedica un canto al peccato di gola nella Divina Commedia. Qui, il Sommo poeta si trova dinnanzi ai dannati colpevoli di aver ceduto al piacere del gusto, del cibo e del vino consumati con smodata ostinazione e godimento. Il vero tentatore però non è il cibo in sé, bensì l’atteggiamento ossessivo mostrato da donne e uomini del tempo, colpevoli di aver allontanato l’anima dal suo nutrimento primario, quello spirituale, per dar sfogo agli istinti dei sensi. Tornando al discorrere dei piatti poveri, l’attaccamento alla tradizione storica fiorentina è evidente ancora oggi.
Le ricette antiche non hanno mai smesso di essere al centro della cultura culinaria toscana, tanto che la ‘povertà’ di quelle pietanze si ritrova intatta sulle tavole di oggi, con la stessa ricerca del prodotto locale, la stessa cura nella preparazione lenta che ne esalti il sapore e una continuità che non trova fine.
Ne sono esempi tipici ricette quali la famosa ribollita, le varie minestre e acque cotte.
La tradizione culinaria toscana ha fatto da ponte tra la vita quotidiana e il cibo. Vi sono ricette strettamente correlate ai mestieri, alle gilde così come alle possibilità economiche. Un esempio è il Peposo, rappresentante di una tradizione culinaria legata ai ”fornacini”, ovvero gli artigiani che si occupavano della cottura di vasi e delle mattonelle di terracotta dell’Impruneta.
Un piatto che trova le sue origini nel 1400, o anche prima, come pasto degli artigiani e degli operai che lavoravano alle fornaci del cotto e delle ceramiche. Le fasi di cottura dei manufatti richiedevano più giorni e più notti davanti al forno senza sosta, dovendo comunque mangiare e non distogliendo l’attenzione dal duro lavoro, serviva un piatto che necessitasse di poche cure, che cuocesse da sé.
Quindi, i fornacini mettevano una pentola di coccio vicino alla bocca della fornace lasciando cuocere da sola e per lungo tempo della carne di bassissimo pregio, spesso maleodorante, fino a
quando i grasselli si fossero sciolti diventando sapore e la carne fosse divenuta tenera.
Per coprire odore e gusto della carne utilizzata, durante la cottura veniva coperta di vino (di terra Toscana naturalmente), aglio e molto pepe.
La lunga cottura a bassa temperatura trasformava però le carni callose e le cartilagini in un ottimo piatto, ricco di sapore e nutriente. La cosiddetta “preparazione in bianco” rimane l’unica originale e immutata fino ad oggi. Per quanto riguarda la ricetta con il pomodoro, essendo stato introdotto in Europa dopo la scoperta dell’America, trova impiego nella cucina Toscana dal 1800 e ha quindi poco a che fare con la storia del peposo. Ciò non toglie che anche in questa variante il piatto risulta buonissimo. La celebrità del Peposo, trova merito in un illustre personaggio di Firenze. Infatti, si racconta che Brunelleschi supervisionasse personalmente la produzione dei materiali che sarebbero poi serviti in fase di costruzione della cupola del Duomo di Firenze. Un giorno, entrando in una fornace dell’Impruneta, rimase colpito da un certo profumo che si propagava nell’aria da tegami posti alla bocca del forno di cottura. Incuriosito, volle assaggiare un po’ di quella pietanza rimanendone estasiato tanto che oltre ai manufatti in cotto decise di portarsi a Firenze quei tegami assieme alla manodopera specializzata sia nella lavorazione della terracotta che nella preparazione di quel magnifico cibo.
Siamo nel 1425 e Filippo Brunelleschi si occupava della progettazione e della costruzione della cupola della Cattedrale di Santa Maria del Fiore. Il genio toscano si occupava non solo dei problemi riguardanti la statica della struttura, ma anche della gestione degli operai e dei loro tempi di lavoro.
Secondo l’illustre architetto i suoi lavoratori impiegavano troppo tempo per la pausa pranzo, dovendo scendere dall’impalcatura, raggiungere l’osteria più vicina, mangiare e poi risalire sulla cupola. Prese spunto, così, dagli operai delle fornaci dell’Impruneta per ottimizzare i tempi della salita e della discesa dalle altissime impalcature del Duomo. Questo genio fiorentino, uomo ingegnoso non solo per gli aspetti architettonici ma anche per quelli pratici, fece costruire delle mense sulle impalcature da dove gli operai potessero mangiare senza dover scendere. Pare che il Brunelleschi facesse arrivare sui ponteggi il vino rosso e il peposo dentro gli orci con gli argani del cantiere, contribuendo all’espansione e al successo di questa prelibatezza toscana. Intorno al 1520 nell’area dell’Ospedale del Ceppo a Pistoia, vennero create delle fornaci per la cottura delle ceramiche invetriate e dei mattoni. Anche in questo caso gli operai, molti dei quali venivano dell’Impruneta o comunque avevano lavorato per il Brunelleschi, realizzavano il peposo come piatto principale. Da allora, il peposo viene cucinato con una ricetta simile all’originale: realizzato con i tagli poveri del manzo con una cottura lenta che, permettendo alla carne di diventare tenerissima, rende questa pietanza così deliziosa da essere diventata uno dei piatti più conosciuti e apprezzati dai cultori della cucina tradizionale.
John Giuliattini per la Compagnia della Finocchiona