Laddove si parla di abitudini alimentari circoscritte ad un preciso momento storico, occorre fare delle dovute precisazioni. Il Medioevo è, infatti, un periodo storico che copre oltre mille anni del nostro tempo, che si individua, secondo le date tradizionalmente indicate dalla storiografia moderna, nel periodo ricompreso dalla deposizione dell’ultimo imperatore romano, Romolo Augusto, nel 476 d.c. alla scoperta dell’America, nel 1492. In ambito culinario ed alimentare, quest’ultimo avvenimento storico è di preminente importanza, poiché è, solo dopo alcuni decenni dalla scoperta dell’America, che nel vecchio continente si diffusero prodotti come il pomodoro, le patate, il mais, i peperoni, i peperoncini ed il cioccolato; non esistevano, quindi, i piatti oggi tipici della nostra cucina. Ad ogni buon conto, essendo ampio il periodo storico di riferimento, occorre tenere conto che le tradizioni culinarie si sono evolute nel tempo e la disposizione di cibo spesso dipendeva dalle condizioni climatiche, dalla abbondanza del raccolto, dalle guerre, dall’evoluzione tecnologia e, soprattutto, dall’influenza culturale: se l’Italia del Nord guarda all’Europa, la Sicilia risente dell’influenza dell’invasione araba che si manifesta nel connubio dolce e salato, nel trionfo della pasticceria elaborata, nell’uso della pasta di mandorla colorata e modellata a forma di frutta e fiori (c.d. frutta martorana). Durante l’intero Medioevo, le diete e la cucina, nelle varie zone dell’Europa, sperimentarono meno cambiamenti rispetto a quanto sarebbe successo nella più breve epoca moderna che sarebbe seguita, durante la quale tali mutamenti avrebbero posto le basi delle abitudini alimentari odierne.

Le specialità regionali che sono una caratteristica della prima cucina moderna e contemporanea non sono state messe in evidenza nella documentazione sopravvissuta dal medioevo. Invece, la cucina medievale può essere differenziata dai cereali e dagli oli che hanno plasmato le norme dietetiche e hanno attraversato i confini etnici e, successivamente, nazionali.

La variazione geografica nel mangiare era principalmente il risultato di differenze nel clima, nell’amministrazione politica e nei costumi locali che variavano in tutto il continente. Sebbene si debbano evitare ampie generalizzazioni, si possono distinguere aree più o meno distinte in cui predominano determinati alimenti. Nelle isole britanniche, nel nord della Francia, nei Paesi Bassi, nelle aree di lingua tedesca settentrionale, in Scandinavia e nel Baltico il clima era generalmente troppo rigido per la coltivazione della vite e dell’olivo. Nel sud europa, il vino era la bevanda comune sia per i ricchi che per i poveri, con ovvie distinzioni di qualità, mentre la birra era la bevanda della gente comune nel nord e il vino un’importazione costosa. Agrumi e melograni erano comuni in tutto il Mediterraneo.

L’olio d’oliva era un ingrediente onnipresente nelle culture mediterranee, ma rimase un’importazione costosa nel nord, dove gli oli di papavero, noce e nocciola erano le alternative più convenienti. Burro e lardo, soprattutto dopo che la terribile peste nera li aveva resi meno scarsi, erano usati in quantità considerevoli nelle regioni settentrionali e nord-occidentali, soprattutto nei Paesi Bassi. Quasi universale nella cucina della classe media e alta di tutta Europa era la mandorla, base dell’onnipresente e molto versatile latte di mandorle, che veniva usato come sostituto in piatti che altrimenti richiedevano uova o latte.

La tradizione alimentare di epoca romana poggiava prevalentemente sull’uso di cereali, legumi, verdure, frutta, olio e vino. Tuttavia, l’alimentazione dei popoli germanici che invasero l’Italia, dominandola per la maggior parte del basso Medioevo (fino al X secolo), prevedeva uno scarso apporto di alimenti di origine vegetale, privilegiando il consumo di carne. Fu con l’affermarsi del Cristianesimo e del fenomeno monastico che gli usi alimentari mediterranei conobbero nuova auge, grazie a un rinnovato interesse per l’agricoltura. Ciò determinò infatti il diffondersi di una dieta che riproponeva gli alimenti di origine vegetale, tipici dell’età romana, abbinati al consumo di carne, ormai abituale per le classi dirigenti e di rango elevato, e non più considerato sintomo di scarsa raffinatezza. D’altra parte, per l’aristocrazia germanica del nord Europa l’introduzione nella dieta del pane bianco e del vino rappresentava un elemento di prestigio e un segno di progresso culturale.

I cereali rimasero l’alimento base più importante durante l’alto medioevo poiché il riso fu introdotto tardi e la patata fu introdotta solo nel 1536. Orzo, avena e segale venivano mangiati dai poveri. Il grano era per le classi più abbienti. Il grano veniva trasformato in pane (spesso c.d.l pane nero e di scarsa qualità), porridge, pappa e pasta da tutti i membri della società. Fave e verdure erano importanti integratori della dieta a base di cereali.

Durante il Medioevo, le carni, le verdure e la frutta di qualità migliore erano destinate, in gran parte, alla tavola del ricco.

Si mangiavano uova e nel 300 aumentò il consumo di formaggi e latticini. Il burro veniva normalmente usato quando era irrancidito.

Le carni da macellaio più diffuse erano il maiale, il pollo e altri volatili domestici; la carne bovina, che richiedeva maggiori investimenti in terreni, era meno comune, perché i buoi erano preziosi, erano bestie da lavoro.

Il merluzzo e l’aringa erano i pilastri delle popolazioni settentrionali; essiccati, affumicati o salati, si facevano strada nell’entroterra, ma veniva mangiata anche un’ampia varietà di altri pesci d’acqua salata e d’acqua dolce, più accessibili per i poveri.

Modesta era la quantità di frutta coltivata, a parte le mele che rappresentavano il frutto per antonomasia (il suo nome in francese è pomme, dal latino pomum, che indicava il frutto in genere). Comunque v’erano anche cotogne, more, pere e pesche. I frutti forniti dalla foresta erano preponderanti e tra questi spiccavano: sorbe, nespole, prunelle, fragole, ribes e lamponi.

Nelle case dei ricchi, le tavole erano spesso smontabili: alcune assi erano appoggiate su dei cavalletti. Anche nei pranzi più sontuosi le stoviglie erano ridotte al minino: un piatto, un bicchiere, un cucchiaio. Un coltello, doveva bastare per diversi commensali: era appoggiato al piatto di portata e serviva solo per tagliare via la propria porzione di carne. Le forchette non esistevano: si mangiava con le mani.

Le tecniche di trasporto e di conservazione degli alimenti rendevano molto costoso il commercio a lunga distanza di molti alimenti. Per questo motivo il cibo della nobiltà era più soggetto all’influenza straniera rispetto alla cucina dei poveri; dipendeva da spezie esotiche e importazioni costose.

I condimenti comuni nel repertorio agrodolce molto speziato tipico della cucina medievale dell’alta borghesia includevano agresto, vino e aceto in combinazione con spezie come pepe nero, zafferano e zenzero. Questi, insieme all’uso diffuso del miele, hanno conferito a molti piatti un sapore agrodolce.

Le Chiese cattolica romana e ortodossa orientale hanno avuto una grande influenza sulle abitudini alimentari; il consumo di carne era proibito per un terzo dell’anno alla maggior parte dei cristiani. Tutti i prodotti animali, comprese le uova e i latticini erano generalmente vietati durante la Quaresima e il digiuno. Inoltre, era consuetudine che tutti i cittadini digiunassero prima di prendere l’Eucaristia. Questi digiuni erano per un’intera giornata e richiedevano l’astinenza totale.

Sia la Chiesa orientale che quella occidentale hanno ordinato che la festa si alternasse al digiuno. Nella maggior parte dell’Europa, i venerdì erano giorni di digiuno e veniva osservato in vari altri giorni e periodi, compresi la Quaresima e l’Avvento. La carne e i prodotti animali come latte, formaggio, burro e uova non erano ammessi, e a volte anche il pesce. Il digiuno aveva lo scopo di mortificare il corpo e rinvigorire l’anima, e anche di ricordare il sacrificio di Cristo per l’umanità. L’intenzione non era di indicare certi cibi come impuri, ma piuttosto di insegnare una lezione spirituale sull’autocontrollo attraverso l’astensione.

Mentre i prodotti animali dovevano essere evitati durante i periodi di penitenza, spesso prevalevano compromessi pragmatici. La definizione di “pesce” veniva spesso estesa ad animali marini e semiacquatici come balene, oche, pulcinelle di mare e persino castori. La scelta degli ingredienti era stata limitata, ma ciò non significava che i pasti fossero più piccoli. Né c’erano restrizioni contro il bere o mangiare dolci. I banchetti tenuti nei giorni del pesce potevano essere splendidi ed erano occasioni popolari per servire cibo che imitava carne, formaggio e uova in vari modi ingegnosi; il pesce poteva essere modellato per assomigliare alla carne di cervo e le uova finte potevano essere fatte riempiendo gusci d’uovo vuoti con uova di pesce e latte di mandorle e cuocerli sulla brace.

Un pasto doveva iniziare con frutta facilmente digeribile, come le mele. Sarebbero poi seguite verdure come lattuga, cavolo cappuccio, erbe aromatiche, frutta umida, carni leggere, come pollo o capretto, con brodi. Successivamente potevano essere servite le carni “pesanti”, come il maiale e il manzo, oltre a verdure e noci, tra cui pere e castagne, considerate entrambe difficili da digerire. Era popolare, e raccomandato dalla perizia medica, finire il pasto con formaggio stagionato e vari digestivi. Il termine “dessert” proviene dall’antico francese desservir, che significava “sparecchiare la tavola” o letteralmente il contrario di servire, ed è entrato in uso proprio durante il Medioevo. Originariamente consisteva in caramelle o piccoli confetti serviti con vino caldo speziato e pezzi di formaggio stagionato, mentre nel tardo Medioevo aveva iniziato ad includere frutta fresca ricoperta di zucchero, miele o sciroppi con dolcetti a base di frutta cotta.

Tutti i tipi di cottura prevedevano l’uso diretto del fuoco. I forni erano molto complessi e costosi da produrre e venivano installati solamente in panifici comuni o in case di grandi dimensioni. Era comune avere la proprietà condivisa di un forno per garantire che la cottura del pane essenziale per tutti fosse resa comune anziché privata. C’erano anche forni portatili progettati per essere riempiti di cibo e poi seppelliti nei carboni ardenti e ancora più grandi su ruote che servivano per vendere le torte per le strade dei borghi medievali. Per la maggior parte delle persone, quasi tutta la cottura avveniva in semplici casseruole, poiché questo era l’uso più efficiente della legna da ardere e non

sprecava preziosi succhi di cottura, rendendo potage e stufati i piatti più comuni. Nel complesso, la maggior parte dei ritrovamenti suggerisce che i piatti medievali avevano un contenuto di grassi abbastanza alto, o almeno quando si poteva permettersi il grasso. Questo era considerato un problema minore in un’epoca di lavoro massacrante, carestia e una maggiore accettazione, persino desiderabilità, della rotondità; solo i poveri o gli ammalati e gli asceti devoti erano magri.

Il sale era indispensabile nella cucina medievale non solo per il suo valore e per l’effetto sul gusto ma anche perché la salatura e l’essiccazione erano i metodi di conservazione principali soprattutto per pesce e carne. Dissalare i cibi prima del loro consumo era noto a tutti i cuochi del Medioevo. Quasi come oggi era presente la suddivisione tra il sale più grosso utilizzato per la cucina e quello macinato e bianco utilizzato direttamente in tavola. Quello più brillante aveva un costo nettamente superiore.

Quanto alla Toscana…

Il cuore della formazione della tradizione alimentare toscana è nel Basso Medioevo, quando si verificò un significativo aumento demografico e fu necessario prevedere un ampliamento dello spazio coltivato, intensificando lo sfruttamento delle terre e cercando prodotti alimentari che integrassero o sostituissero i cereali: da una parte, si usò la coltura promiscua (cereali e piante), dall’altra, gli abitanti della montagna ricorsero ai castagneti da frutto, che mutarono le caratteristiche del mantello boschivo, dall’estremità occidentale dell’Appennino, fino all’Amiata. Le castagne, infatti, ebbero il merito di salvare la popolazione toscana dalla diffusione della pellagra, nel corso del XVIII secolo: parte della produzione veniva consumata prima dell’essiccatura, una parte delle biade serviva ad alimentare gli animali e, in tempi di carestia, il consumo da parte degli uomini tendeva ad ampliarsi. Il consumo a distanza delle castagne avveniva quando erano state trasformate in farina e, quindi, in polenta o pane di mistura: nella cucina di molte zone dell’Appennino e della montagna toscana, in genere, le ricette legate alle castagne sono ancora innumerevoli, declinate in pietanze diverse.

Il consumo di vino è sempre stato molto elevato: vino bianco e vino rosso, vernaccia e vernaccino, acquerello, leggero e acido, agresto, usato in cucina…. Il vino come molti di noi lo conoscono era già diffuso ma a “gerarchia invertita”: bianchi delicati per palati nobili e raffinati; rossi corposi e robusti per contadini e lavoranti

Se i Toscani non facevano grande consumo di carne, era notevole, anche in conseguenza del calendario liturgico, il consumo di pesce, il cui approvvigionamento avveniva grazie alla produzione ittica delle acque interne, fiumi, torrenti e paludi, sia a quella del litorale, sia a quella importata: il pesce era consumato nei giorni “di magro”, ma era usato anche per farcire crostate e preparare gelatine. Non esisteva la bistecca alla Fiorentina, poiché questa fece la sua comparsa assai tardi nelle tavole dei toscani, anche a causa della scarsa conservabilità degli ingredienti, che imponeva preparazioni dalle cotture più lunghe e sicure dal punto di vista alimentare.. La carne, in particolare gli avanzi, le interiora e le parti meno nobili dell’animale, venivano in larga parte usati per stufati, brodi e bolliti. Il bollito stesso poi era considerato un lusso, consumato quasi esclusivamente nei giorni di festa.

Se il miele era il dolcificante più diffuso, in Toscana non era difficile procurarsi il sale, grazie anche ai depositi di salgemma della zona di Volterra: le spezierie proponevano, invece, prodotti

particolari da consumare in cucina, come il pepe, la cannella, la noce moscata, lo zenzero o lo zafferano.

Quanto alle spezie ed i condimenti, la Toscana spiccò sempre per qualità degli ingredienti e creatività: lo zafferano era una spezia così raffinata e ricercata che molte cittadine si arricchirono grazie ad esso, prima tra tutte San Gimignano. Numerose testimonianze storiche documentano la presenza dello Zafferano di San Gimignano DOP nel comune toscano già a partire dal Duecento. È noto infatti che nel 1238 fu organizzata una grande spedizione del prodotto verso Pisa, e nel 1291 la spezia fu esportata anche a Genova. Dal 1221 al 1247 questo prodotto fu addirittura commercializzato in alcune città orientali e africane. Alcuni commercianti del luogo si arricchirono con la vendita dello zafferano, sempre più redditizia, e fecero costruire imponenti torri che ancora oggi si possono ammirare a San Gimignano. Il prodotto fu spesso utilizzato anche come donativo o come sostituto del denaro. Le notizie sulla storia produttiva dello zafferano sono moltissime e si sa che, oltre che in cucina, veniva utilizzato nella tintura, nella pittura e nella medicina.

L’olio fu invece da sempre un ingrediente prezioso, che sostituì presto i grassi animali in molte tavole contadine, assieme alle erbe fresche dell’orto.

La cucina delle famiglie contadine era ricca di piatti sostanziosi, adatti a riparare il corpo dalle fatiche del lavoro: l’acquacotta (pane raffermo, olio di oliva, verdure), la scottiglia (una sorta di caciucco di carne), la polenta di castagne “pattona”, la ribollita, la cipollata, le varie pappe con gli odori dell’orto. Era assai diffuso anche l’acquisto degli avanzi della lavorazione della carne, un insieme chiamato dalle massaie toscane “malacarne“. Solo in tempi recenti si diffusero largamente i salumi, protagonisti spesso di una frugale cena dalle 18.00 alle 19.30 al massimo e consumati spesso con grande parsimonia in quanto assai costosi, anche per chi aveva la fortuna di macellare in proprio un maiale. Consideriamo anche che formaggi oggi pregiatissimi come la ricotta di pecora o il pecorino erano un tempo l’unica variante ad una dieta poverissima per le famiglie di pastori, che da questi alimenti traevano le proteine ed i grassi per affrontare dure giornate di lavoro e che assai spesso erano usati come “merce di scambio” con altri alimenti durante i lunghi viaggi di transumanza

 

Andrea Russo